sabato 12 luglio 2008

Il Belpaese ha perso il treno, I suoi talenti costretti a prendere l’aereo.

Il Belpaese ha perso il treno, I suoi talenti costretti a prendere l’aereo.
La fuga dei cervelli è ormai un fenomeno talmente ricorrente e consolidato in Italia, che sembra essere diventato normale e quasi comunemente accettato, una routine per un paese che con un eufemismo potremmo definire anziano e stanco, lacerato da un’instabilità politica interna e da una mentalità collettiva che lo sta portando a sopportare ogni cosa o addirittura a non vedere i problemi di cui sta soffrendo.
Un tempo il nostro Paese era famoso nel mondo per la letteratura, per l’arte, per la politica, per le scienze e per altre nobili ragioni, ora in tutti questi settori siamo fortemente indietro rispetto agli altri paesi europei e a numerosi altri paesi del pianeta. Tuttavia l’italiano tipico si considera ancora al centro del mondo, soprattutto dopo che l’Italia ha vinto i mondiali di calcio: campioni del mondo? Si ma solo in uno sport o forse anche in ipocrisia.
Fortunatamente c’è anche chi denuncia una situazione molto meno serena su temi di gran lunga più importanti, come fa Irene Tinagli nel suo nuovo libro “Talento da Svendere”.
Il fatto che numerosi talenti italiani decidano sempre più spesso di fuggire all’estero è dovuto fondamentalmente alle tre cause riportate nell’articolo di Michele Smargiassi su Repubblica: l’università, l’impresa e la geografia.
Senza ripetere quanto detto dal giornalista mi soffermerò a discutere queste tre ragioni con lo sguardo dello studente, che sfortunatamente sta vivendo in prima persona questo drammatico problema.
Per quanto riguarda l’università, ritengo che oltre ai problemi giustamente sottolineati da Smargiassi, vi sia la scarsa capacità di motivazione e il totalmente assente incentivo alla creatività da parte delle facoltà italiane. Per quanto riguarda ingegneria, che è stata la mia scelta come percorso di studi, ho potuto notare in questi anni la scarsità di docenti che sappiano motivare i propri studenti, che riescano a dare loro un punto di vista anche solo un poco diverso da quello convenzionale incentrato su nozioni e formule da sapere a memoria senza un minimo accenno allo sviluppo della propria creatività.
Sono arrivato a Ingegneria Informatica ormai 3 anni fa, con una passione per l’informatica, con gli occhi del ragazzino che a 5 anni assemblava computers nel negozio sotto casa e mi preparo ad uscirne ora nauseato dalla mia stessa passione, totalmente privo di interesse per quello che ho scelto e con un unico interesse rivolto all’economia, la materia che ha meno a che fare con le altre nel mio corso di laurea e che forse anche per questo ha assunto ai miei occhi un fascino particolare essendo l’unica che riesce a stimolare la mia creatività.
Ed è proprio il fattore creatività che ha generato quello che Google ha definito il “problema Facebook”, ovvero la fuga di cervelli da Google verso l’azienda di Zuckerberg, una migrazione che sembra dovuta proprio alla ricerca di avventura, di un luogo in cui si possa nutrire la propria genialità e creatività, luogo che era rappresentato dalla Google di ieri e che si può trovare nella Facebook di oggi.
Purtroppo la maggior parte dei miei colleghi con cui ho occasione di parlare non la pensano allo stesso modo, sono ormai assuefatti dal sistema “studia, impara a memoria, registra il voto, dimentica e trova lavoro il prima possibile, possibilmente vicino a mamma e papà” caratteristico del sistema universitario e sociale di questo paese.
Le imprese sono certamente un altro fattore critico. In Italia predomina la piccola e media impresa, spesso a conduzione familiare, quasi sempre diffidente rispetto ad ogni apertura verso l’esterno, poco propensa ad accettare apporti esterni non solo in termini di finanziamenti (che non siano pubblici e a fondo perduto), ma anche di idee capaci di innescare processi virtuosi di innovazione: un cocktail letale per un neo laureato con talento e creatività.
Per quanto riguarda i bassi salari la cosa che ritengo maggiormente triste è che tra i miei colleghi universitari c’è ancora la convinzione che il titolo di Ingegnere Informatico ti dia automaticamente la possibilità di ricoprire ruoli importanti e guadagnare molto denaro: quando faccio loro notare che attualmente la figura del programmatore in un azienda informatica (ruolo spesso ambito dagli Ingegneri che non sanno che per svolgerlo basta un diploma di un istituto tecnico) è pressappoco l’equivalente di quella di un operaio metalmeccanico, vengo accusato di pessimismo.
Infine anche la geografia come viene sottolineato nell’articolo è un aspetto che non va sottovalutato: la mentalità degli italiani è per la maggior parte chiusa e miope; mi permetto di fare alcuni esempi senza scendere troppo nello specifico.
La nuova generazione di imprenditori che si sta formando, per lo meno in Veneto, è spesso composta da figli di papà che non hanno dovuto fare nemmeno un briciolo di fatica per raggiungere i loro obbiettivi, grazie agli sforzi compiuti dai loro genitori in passato, una generazione che è spesso più attenta ad esibire la propria automobile per le strade del centro città piuttosto che a interessarsi di un’azienda che non sentono come propria in quanto non hanno dovuto faticare per ottenerla.
L’egoismo che porta molti imprenditori a ritenere di gran lunga più importante guadagnare molto denaro con metodi leciti e illeciti senza interessarsi o perfino a discapito del bene della collettività non è certamente un fattore positivo per la formazione di imprese che possano aiutare il nostro paese a recuperare.
Se poi si pensa che una lingua come l’inglese, fondamentale nel business a livello internazionale, è spesso del tutto ignorata dai nostri imprenditori veneti che faticano addirittura ad esprimersi in un italiano privo di storpiature dialettali, si capisce che mancano addirittura le basi per l’innovazione.
La mentalità bigotta di cui si parla nell’articolo la fa infatti da padrona in Italia, un paese in cui la donna è spesso ancora considerata inferiore all’uomo, dove orientamenti sessuali e colore della pelle determinano le capacità e la qualità delle persone, dove tutto ciò che viene da fuori dei nostri confini viene visto con timore e con disprezzo.
Nonostante vi siano ogni tanto delle buone notizie che sembrano invertire questa tendenza (un esempio che balza alla mente è l’elezione di Emma Marcegaglia a presidente di Confindustria) temo che questo possa rimanere un caso isolato, una sorta di bella eccezione che conferma una triste regola.
L’amara conclusione è che il nostro paese continua a perdere giovani talenti che migrano all’estero e tende a produrne sempre di meno, ma una soluzione c’è e non è quella di accettare le cose così come stanno, bensì rimboccarsi le macchine e lavorare per creare le condizioni adatte al proliferare di quel genio e di quella creatività italica che contraddistinsero la nostra nazione.
E soprattutto, diversamente da chi continua a sostenere che i Veneti sono la locomotiva d’Italia, è necessario rendersi conto che il treno dell’innovazione l’abbiamo perso da un pezzo e dobbiamo cominciare a camminare con le nostre gambe perché al momento siamo rimasti a piedi.
Jacopo Buriollo

L’articolo di Michele Smargiassi sui talenti sprecati tratto da Repubblica.it:
http://www.repubblica.it/2008/04/sezioni/scuola_e_universita/servizi/cervelli-sprecati/cervelli-sprecati/cervelli-sprecati.html?ref=search

L’articolo di Paolo Pontoniere su Google e il problema Facebook tratto da Repubblica.it:
http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/scienza_e_tecnologia/google-7/cervelli-in-fuga/cervelli-in-fuga.html?ref=search

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