Secondo Beniamino Moro il solo fatto di studiare a Stanford rende gli studenti più intelligenti di quelli che rimangono in Italia. Da sarda arrivata negli Usa in tempi non sospetti (il 1971), posso testimoniare che la stragrande maggioranza degli italiani che oggi frequentano l'università negli Usa, più che di intelligenza superiore sono dotati di genitori ultrafacoltosi e delle raccomandazioni di professori italiani compiacenti. Non è alla portata di tutti dimostrare di possedere 40 mila dollari o più all'anno, somma richiesta dalle università americane e dall'Ufficio Immigrazione per l'ammissione nel Paese. Paradossalmente, e tristemente, ormai anche emigrare per motivi di studio è diventato un privilegio. Nelle università Usa vigono la meritocrazia e l'onestà, ma non c'è modo per Stanford o Ucla di controllare se le entusiastiche raccomandazioni del professore italiano per il suo pupillo derivino da merito reale o da ingenti somme di denaro sborsate dai genitori per spianare la strada al loro rampollo. Purtroppo lo scandalo delle ammissioni comprate non si ferma sulle sponde dell'Atlantico, e potenzialmente infetterà anche il sistema universitario americano, ignaro di quali serpi stia innocentemente accogliendo.
Rachele Marongiu Duke - Albuquerque (Usa)
L'Unione Sarda, Lettere & Opinioni, pagina 12, 13 settembre 2007.
giovedì 13 settembre 2007
Università, così si perdono i fondi
Sardegna e ricerca. Università, così si perdono i fondi di Beniamino Moro (L'Unione Sarda, prima Pagina, 11 settembre 2007)
In un documento presentato congiuntamente il 2 agosto dai ministri dell'Università Fabio Mussi e del Tesoro Padoa Schioppa, sono stati presentati gli impegni del governo per un "patto per l'università e la ricerca". L'impegno più significativo che viene evidenziato è che d'ora in avanti un terzo dei fondi incentivanti del ministero dell'Università verranno attribuiti ai singoli atenei sulla base dei risultati dell'attività di ricerca scientifica conseguiti da ciascuno di essi. I risultati della ricerca scientifica sono già stati misurati oggettivamente l'anno scorso da un organismo di valutazione nazionale, il Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca), che a breve sarà sostituito dall'Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell'Università e della ricerca). Il patto proposto dai due ministri dovrà rafforzare la cultura della valutazione, adottando parametri oggettivi da sottoporre a verifica periodica, in modo da aprire spazi per la ricerca in piena autonomia di giovani ricercatori, attirare bravi studiosi dall'esterno, promuovere l'internazionalizzazione e incentivare la mobilità nazionale ed internazionale di studenti, ricercatori e professori.
Come si colloca l'Ateneo di Cagliari rispetto a questi problemi? Sarà in grado di perseguire gli obiettivi che il Ministro Mussi indica come irrinunciabili per il miglioramento qualitativo dell'Università italiana, tanto che al perseguimento di questi condiziona la futura assegnazione dei fondi? Alcune recenti vicende purtroppo non depongono favorevolmente. In un recente editoriale su questo giornale, Giuseppe Marci lamentava il fatto che valenti studiosi della nostra Università, che vengono accolti e valorizzati in programmi di PhD in America e in altre università internazionali, quando tornano non trovano più posto perché in molti casi il campo della ricerca è loro precluso e ogni spazio è occupato da quelli che sono rimasti, anche se di minor ingegno.
Altro caso che può essere citato è quello della Facoltà di Economia che non ha chiamato il vincitore di un concorso da essa stessa bandito, nonostante si trattasse di un economista di levatura internazionale, con PhD (Dottorato di ricerca) dell'Università di Stanford, al sesto posto nel mondo per la ricerca in economia. Tutte le università del mondo fanno a gara per accaparrarsi studiosi di questa levatura, per il prestigio e le relazioni scientifiche che essi sono in grado di promuovere e per la qualità dell'insegnamento di cui beneficiano gli studenti. La sua chiamata avrebbe dato ulteriore prestigio al nostro Ateneo e alle ricerche in campo economico, tenuto conto che la maggior parte dei lavori della Facoltà di Economia di Cagliari (6 su 9) ammessi con giudizio positivo nella recente valutazione nazionale dell'attività di ricerca (Civr) sono stati quelli del Dipartimento di Economia, dove questo studioso si sarebbe collocato. Così, la Facoltà avrà un bravo studioso in meno e meno fondi a disposizione. Se la nostra Università non si dota di una seria politica della ricerca, essa è destinata a finire non in serie B, ma in serie C o nel torneo dei dilettanti.
In un documento presentato congiuntamente il 2 agosto dai ministri dell'Università Fabio Mussi e del Tesoro Padoa Schioppa, sono stati presentati gli impegni del governo per un "patto per l'università e la ricerca". L'impegno più significativo che viene evidenziato è che d'ora in avanti un terzo dei fondi incentivanti del ministero dell'Università verranno attribuiti ai singoli atenei sulla base dei risultati dell'attività di ricerca scientifica conseguiti da ciascuno di essi. I risultati della ricerca scientifica sono già stati misurati oggettivamente l'anno scorso da un organismo di valutazione nazionale, il Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca), che a breve sarà sostituito dall'Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell'Università e della ricerca). Il patto proposto dai due ministri dovrà rafforzare la cultura della valutazione, adottando parametri oggettivi da sottoporre a verifica periodica, in modo da aprire spazi per la ricerca in piena autonomia di giovani ricercatori, attirare bravi studiosi dall'esterno, promuovere l'internazionalizzazione e incentivare la mobilità nazionale ed internazionale di studenti, ricercatori e professori.
Come si colloca l'Ateneo di Cagliari rispetto a questi problemi? Sarà in grado di perseguire gli obiettivi che il Ministro Mussi indica come irrinunciabili per il miglioramento qualitativo dell'Università italiana, tanto che al perseguimento di questi condiziona la futura assegnazione dei fondi? Alcune recenti vicende purtroppo non depongono favorevolmente. In un recente editoriale su questo giornale, Giuseppe Marci lamentava il fatto che valenti studiosi della nostra Università, che vengono accolti e valorizzati in programmi di PhD in America e in altre università internazionali, quando tornano non trovano più posto perché in molti casi il campo della ricerca è loro precluso e ogni spazio è occupato da quelli che sono rimasti, anche se di minor ingegno.
Altro caso che può essere citato è quello della Facoltà di Economia che non ha chiamato il vincitore di un concorso da essa stessa bandito, nonostante si trattasse di un economista di levatura internazionale, con PhD (Dottorato di ricerca) dell'Università di Stanford, al sesto posto nel mondo per la ricerca in economia. Tutte le università del mondo fanno a gara per accaparrarsi studiosi di questa levatura, per il prestigio e le relazioni scientifiche che essi sono in grado di promuovere e per la qualità dell'insegnamento di cui beneficiano gli studenti. La sua chiamata avrebbe dato ulteriore prestigio al nostro Ateneo e alle ricerche in campo economico, tenuto conto che la maggior parte dei lavori della Facoltà di Economia di Cagliari (6 su 9) ammessi con giudizio positivo nella recente valutazione nazionale dell'attività di ricerca (Civr) sono stati quelli del Dipartimento di Economia, dove questo studioso si sarebbe collocato. Così, la Facoltà avrà un bravo studioso in meno e meno fondi a disposizione. Se la nostra Università non si dota di una seria politica della ricerca, essa è destinata a finire non in serie B, ma in serie C o nel torneo dei dilettanti.
domenica 9 settembre 2007
Sardegna matrigna per i giovani laureati
La fuga dei cervelli. Sardegna matrigna per i giovani laureati
di Giuseppe Marci (L’Unione Sarda, prima pagina, 4 settembre 2007)
Marco è andato in America. Sotto un certo aspetto questa è cosa buona e giusta: significa che siamo in grado di formare giovani eccellenti che, appena laureati e semplicemente esibendo il proprio curriculum, vengono accolti da istituzioni universitarie internazionali per completare la formazione o insegnare.
Personalmente sono lieto per questo mio allievo sapiente ed educato che si avvia con onore nelle strade del mondo. Però devo dire che, a gioco lungo, dopo averne allevati tanti e averli visti partire, i conti non mi tornano. O, piuttosto, sono loro che non tornano, come del resto è inevitabile che sia. Il nostro mondo è avaro di riconoscimenti, spirituali e materiali. Altrove hanno spazio, soddisfazioni e ruolo. Non di rado buone remunerazioni. Poi, come è naturale che sia, coltivano amicizie, mettono su famiglia, crescono figli. Perché dovrebbero tornare, se non per far visita ai genitori che invecchiano e trascorrere qualche giorno nella "terra delle vacanze", come tale conosciuta anche in America?
È per questo che dico: i conti non tornano. Noi spendiamo quantità ragguardevoli di danaro e di energie (oltre che, beninteso, di sentimenti) per formare un prodotto eccellente che altri accolgono "finito", ricavandone ogni vantaggio senza aver investito un solo centesimo nella sua formazione. Né possiamo sperare di riaverli, nonostante le norme che periodicamente vengono approntate, a livello regionale e nazionale, per il "ritorno dei cervelli". Lo diceva, di recente, il professor Enrico Bombieri, luminare della matematica che insegna a Princeton (Usa): "Forse le nuove generazioni hanno un certo disagio, perché dopo la laurea nel nostro Paese devono approfondire i loro studi a Oxford, a Parigi, in Germania. Rientrano con qualche problema (non sempre sono accolti come meriterebbero); poi ho notato che molti, pur essendo bravissimi, forse scoraggiati da troppe difficoltà, si lasciano alle spalle la ricerca per tentare la sorte in qualche società finanziaria".
Diciamola tutta, professor Bombieri, cercano altre vie anche perché, in molti casi il campo della ricerca è a loro in larga misura precluso, ogni spazio occupato da quelli che sono rimasti, spesso di minor ingegno, ma comunque presenti e decisi a difendere i confini del proprio orticello.
A Marco che parte (e conosce il greco e il latino: oltre le principali lingue moderne, si capisce), voglio donare un augurio contenuto nelle sue amate raccolte di sentenze medioevali: Quod hodie non est cras erit . Non dobbiamo mai perdere la nostra fiducia nel destino dell’uomo: può essere che domani accada ciò che oggi è praticamente impensabile, e raramente si è visto in passato. Non è un augurio che riguardi soltanto lui; credetemi: di una testa come quella di Marco c’è un gran bisogno, in Sardegna e in Italia.
di Giuseppe Marci (L’Unione Sarda, prima pagina, 4 settembre 2007)
Marco è andato in America. Sotto un certo aspetto questa è cosa buona e giusta: significa che siamo in grado di formare giovani eccellenti che, appena laureati e semplicemente esibendo il proprio curriculum, vengono accolti da istituzioni universitarie internazionali per completare la formazione o insegnare.
Personalmente sono lieto per questo mio allievo sapiente ed educato che si avvia con onore nelle strade del mondo. Però devo dire che, a gioco lungo, dopo averne allevati tanti e averli visti partire, i conti non mi tornano. O, piuttosto, sono loro che non tornano, come del resto è inevitabile che sia. Il nostro mondo è avaro di riconoscimenti, spirituali e materiali. Altrove hanno spazio, soddisfazioni e ruolo. Non di rado buone remunerazioni. Poi, come è naturale che sia, coltivano amicizie, mettono su famiglia, crescono figli. Perché dovrebbero tornare, se non per far visita ai genitori che invecchiano e trascorrere qualche giorno nella "terra delle vacanze", come tale conosciuta anche in America?
È per questo che dico: i conti non tornano. Noi spendiamo quantità ragguardevoli di danaro e di energie (oltre che, beninteso, di sentimenti) per formare un prodotto eccellente che altri accolgono "finito", ricavandone ogni vantaggio senza aver investito un solo centesimo nella sua formazione. Né possiamo sperare di riaverli, nonostante le norme che periodicamente vengono approntate, a livello regionale e nazionale, per il "ritorno dei cervelli". Lo diceva, di recente, il professor Enrico Bombieri, luminare della matematica che insegna a Princeton (Usa): "Forse le nuove generazioni hanno un certo disagio, perché dopo la laurea nel nostro Paese devono approfondire i loro studi a Oxford, a Parigi, in Germania. Rientrano con qualche problema (non sempre sono accolti come meriterebbero); poi ho notato che molti, pur essendo bravissimi, forse scoraggiati da troppe difficoltà, si lasciano alle spalle la ricerca per tentare la sorte in qualche società finanziaria".
Diciamola tutta, professor Bombieri, cercano altre vie anche perché, in molti casi il campo della ricerca è a loro in larga misura precluso, ogni spazio occupato da quelli che sono rimasti, spesso di minor ingegno, ma comunque presenti e decisi a difendere i confini del proprio orticello.
A Marco che parte (e conosce il greco e il latino: oltre le principali lingue moderne, si capisce), voglio donare un augurio contenuto nelle sue amate raccolte di sentenze medioevali: Quod hodie non est cras erit . Non dobbiamo mai perdere la nostra fiducia nel destino dell’uomo: può essere che domani accada ciò che oggi è praticamente impensabile, e raramente si è visto in passato. Non è un augurio che riguardi soltanto lui; credetemi: di una testa come quella di Marco c’è un gran bisogno, in Sardegna e in Italia.
giovedì 30 agosto 2007
AAA Ricercatori lituani cercansi
Quando si parla di fuga dei cervelli spesso ci si appella in modo qualunquistico alla complessità dei problemi della ricerca per attenuare le responsabilità e confondere le acque. Tra questi problemi ce n'è uno tanto evidente da essere quasi ignorato: la totale inadeguatezza degli stipendi dei ricercatori nel nostro Paese.
Cito dal blog "Made in Italy" dell'amico Marco Cattaneo de Le Scienze una serie di cifre molto interessanti a questo proposito.
"12.337 sono gli euro lordi del salario d’ingresso di un ricercatore in Italia, vale a dire di un giovane con 0-4 anni di esperienza che usufruisce di una borsa di dottorato o post-doc. Poi, spesso, i quattro anni diventano pure sette o otto, con borse o contratti che affogano nel precariato più cupo.
E adesso diamo i numeri degli altri: un “neo-ricercatore” guadagna (sempre al lordo) 51.399 euro in Norvegia, 42.528 in Danimarca, 39.599 in Svizzera. Ma anche se abbandoniamo questi paradisi e ci confrontiamo con paesi più vicini a noi sono sempre: Austria, 35.836 euro; Francia 28.191; Gran Bretagna, 24.607; Germania 24.515. Ci supera anche la Spagna (dove però il potere d’acquisto degli stipendi è un tantino più alto…), con 13.988 euro all’anno. E ce la battiamo con Grecia (12.112), Lituania (10.478) e Repubblica Ceca (9.881)".
Auguriamoci almeno di fare il pieno di ricercatori dalla Lituania e dalla Repubblica Ceca...
Cito dal blog "Made in Italy" dell'amico Marco Cattaneo de Le Scienze una serie di cifre molto interessanti a questo proposito.
"12.337 sono gli euro lordi del salario d’ingresso di un ricercatore in Italia, vale a dire di un giovane con 0-4 anni di esperienza che usufruisce di una borsa di dottorato o post-doc. Poi, spesso, i quattro anni diventano pure sette o otto, con borse o contratti che affogano nel precariato più cupo.
E adesso diamo i numeri degli altri: un “neo-ricercatore” guadagna (sempre al lordo) 51.399 euro in Norvegia, 42.528 in Danimarca, 39.599 in Svizzera. Ma anche se abbandoniamo questi paradisi e ci confrontiamo con paesi più vicini a noi sono sempre: Austria, 35.836 euro; Francia 28.191; Gran Bretagna, 24.607; Germania 24.515. Ci supera anche la Spagna (dove però il potere d’acquisto degli stipendi è un tantino più alto…), con 13.988 euro all’anno. E ce la battiamo con Grecia (12.112), Lituania (10.478) e Repubblica Ceca (9.881)".
Auguriamoci almeno di fare il pieno di ricercatori dalla Lituania e dalla Repubblica Ceca...
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domenica 26 agosto 2007
International Migration, Remittances and the Brain Drain
On October 24, 2005, the Research Program published its first major work on migration, a book entitled International Migration, Remittances and the Brain Drain. This volume contains four country case studies on the impact of remittances on poverty and expenditure patterns, and four chapters on the brain drain, including the largest existing data base on the brain drain, and analyses of the brain gain, brain waste, and the impact on productivity in destination countries. The book was co-edited by Maurice Schiff and Caglar Ozden.
Table of Contents & sample chapter:
Table of Contents (pdf - 75k)
Chapter 1 (pdf - 225k) Determinants of Migration, Destination, and Sector Choice: Disentangling Individual, Household, and Community Effects - Jorge Mora and J. Edward
Permanent URL for this page: http://go.worldbank.org/9RNL2VF9F0
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Chapter 1 (pdf - 225k) Determinants of Migration, Destination, and Sector Choice: Disentangling Individual, Household, and Community Effects - Jorge Mora and J. Edward
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sabato 25 agosto 2007
Fuga dei cervelli al contrario ora l´America teme la Cina
Pechino diventa la nuova frontiera della ricerca tecnologica. Sempre meno scienziati asiatici scelgono la Silicon Valley
Fuga dei cervelli al contrario ora l´America teme la Cina
Torna in patria Chen, padre del supercomputer Usa
Federico Rampini, La Repubblica, 14 novembre 2004
SAN FRANCISCO - Trent´anni dopo aver varcato il Pacifico in senso inverso, compiuti i sessanta Steve Chen ha deciso di voltare le spalle alla Silicon Valley californiana e stabilirsi a Shenzhen, giovanissima metropoli della Cina meridionale. Il suo non è certo il primo esempio di emigrazione di ritorno, da quando il boom economico ha fatto della Cina la «nuova frontiera» del capitalismo. Ma la scelta dello scienziato sino-americano è un caso speciale che preoccupa gli Stati Uniti più di ogni altro.
Perché Chen è uno dei «padri» dei supercomputer prodotti in pochi esemplari all´anno, cervelloni ad alta potenza usati nella ricerca scientifica più avanzata e spesso per scopi militari.
La partenza di un talento che era stato conteso dalla Cray e dalla Ibm è una perdita strategica per gli Stati Uniti, tanto più perché se ne avvantaggia un rivale come la Cina. Il caso Chen è la punta di un iceberg. Sotto c´è una tendenza di massa. La fuga dei cervelli, che un tempo era a senso unico e cioè sempre verso l´America, improvvisamente sta cambiando segno. Quest´anno per la prima volta il numero di studenti e ricercatori cinesi e indiani nelle università americane è in discesa: grazie al miracolo economico asiatico, per loro rimanere in patria è diventata un´alternativa attraente. Craig Barrett, per anni numero uno della Intel, che è il leader mondiale dei microchip, ammette che «i cinesi sono ormai alla pari con noi nell´ingegneria, nel software, ad ogni livello di management». Adam Segal, esperto della Cina al Council on Foreign Relations di Washington, scrive su Foreign Affairs che «alla velocità con cui la capacità di innovazione attraversa il Pacifico, gli Stati Uniti non possono più dare per scontato che rimarranno l´epicentro della scienza e della tecnologia».
L´allarme sulla partenza di Chen è stato lanciato dal New York Times. Traspare la paura dell´intelligence militare americana per l´uso che la Cina potrebbe fare dei supercomputer nello sviluppo di nuovi armamenti, più competitivi con gli arsenali hi-tech del Pentagono. Ma anche nelle applicazioni civili i supercomputer sono spesso «l´arma segreta», lo strumento che per potenza di calcolo consente all´università e all´industria Usa di bruciare la concorrenza nelle scoperte di fisica, chimica, ingegneria o biogenetica. Dei 500 supercomputer più potenti del mondo, la maggioranza è in America. Ma da quando Chen ha cominciato a lavorare per la Cina (a giugno), con il suo aiuto è stato prodotto a Shanghai un supercomputer che è il decimo del mondo per velocità. La Cina ora ha 14 supercomputer classificati fra i top 500 mondiali, ha già raggiunto la Germania al quarto posto in questo settore, e al ritmo con cui si rafforza è pronta a superare Giappone e Gran Bretagna per collocarsi dietro l´America.
Chen non è né una spia né un traditore al soldo di Pechino. Cinese etnico, è nato però a Taiwan da dove partì trentenne nel 1975 per conseguire un dottorato di ricerca in informatica negli Stati Uniti. Già negli anni '80 balzò al top della sua professione, diventando uno dei massimi progettatori di supercomputer, con una carriera passata fra le migliori università e l´industria privata (Cray research, Supercomputing Systems, Ibm). Non c´è una motivazione politica o nazionalistica dietro la sua partenza, del resto ha lasciato la moglie americana e i figli a vivere sotto il sole della California a San Jose. Niente scelta di campo. Semplicemente, Chen per realizzare i suoi ultimi progetti ha trovato più finanziamenti e opportunità di sviluppo in Cina. Incredibile a dirsi, nel centro mondiale del venture capital che è la Silicon Valley, faceva più fatica a trovare i fondi e gli uomini giusti. Li ha trovati alla società Galactic Computing di Shenzhen, finanziata da venture capital di Hong Kong e sostenuta da un gruppo di università tecnologiche cinesi.
Insieme all´allarme per il caso-Chen, l´America sta scoprendo il fenomeno più vasto. Dopo aver beneficiato per decenni del brain-drain, l´attrazione di cervelli dall´estero, il sistema universitario americano perde colpi. In parte la causa è l´11 settembre e il Patriot Act, il giro di vite sui visti che complica la vita a chiunque voglia emigrare negli Stati Uniti, anche ricercatori, scienziati e imprenditori. In parte è il deficit federale accumulato da Bush che comincia a tradursi in tagli ai finanziamenti per le università pubbliche. Ma c´è una terza causa che riguarda i paesi asiatici. Le loro economie stanno crescendo a una velocità nettamente superiore al resto del mondo (+9% la crescita annua del Pil cinese negli ultimi quattro anni, +8% l´India), lo sviluppo tecnologico è così intenso che per i talenti migliori emigrare in America non è più l´unica opzione. Le statistiche degli atenei sono eloquenti. Nell´autunno di quest´anno le domande presentate da laureati cinesi per iscriversi a corsi post-universitari negli Stati Uniti (master e Ph. D.) sono crollate del 45% rispetto all´anno accademico 2003-2004. Per gli indiani il calo nelle richieste è stato del 28%.
Per il sistema universitario americano - e quindi per la competitività del capitalismo Usa - è un segnale di pericolo. Da decenni l´afflusso di studenti asiatici aveva alimentato gli Stati Uniti di forze fresche, qualificate e competitive, soprattutto nei settori scientifici. Era stata coniata una definizione, ironica ma efficace: «I migliori campus americani sono quei luoghi dove anziani professori ebrei trasferiscono il sapere nella matematica, fisica e biologia a giovani studentesse cinesi». La realtà non è molto lontana da quell´immagine. Sia perché i licei americani non sono all´altezza delle università, sia perché da tempo i figli della borghesia americana preferiscono fare gli avvocati o entrare in una merchant bank, l´America è perennemente a corto di scienziati, ingegneri, chimici e informatici. Finora il gap è stato colmato dall´immigrazione asiatica. Foreign Affairs cita un dato impressionante: oggi in America il 38% degli scienziati e degli ingegneri con un dottorato di ricerca (Ph. D.) sono nati all´estero. Per la maggior parte sono cinesi, indiani, coreani. Già negli anni '90 nella Silicon Valley l´economista Annalee Saxenian aveva censito un terzo di start-up tecnologiche create da neo imprenditori col passaporto asiatico. Se viene meno questa risorsa, le conseguenze saranno profonde.
La Cina da parte sua non fa altro che imitare il modello americano. Pur essendo un paese emergente, fa sforzi eccezionali negli investimenti scientifici: in cinque anni i finanziamenti pubblici che Pechino dedica alla ricerca e sviluppo sono passati dallo 0,6 all´1,5% del Pil, superando il livello di molti paesi europei. Nel settore privato, un aiuto non marginale glielo fornisce la stessa industria Usa. Negli ultimi anni i big dell´industria tecnologica americana delocalizzano in Cina non solo le fabbriche ma anche i centri di ricerca, cioè posti di lavoro per scienziati. Microsoft, Intel, Ibm, Motorola, Bell Labs, sono alcuni grandi nomi del sistema America che ormai hanno in Cina centri studi, laboratori sperimentali, uffici di design e progettazione dove assumono matematici, fisici, ingegneri. Adam Segal del Council on Foreign relations non ha dubbi sulla serietà della minaccia: «La leadership globale degli Stati Uniti dipende in larga parte dalla nostra capacità di sviluppare nuove tecnologie e nuove industrie più velocemente di qualsiasi altro paese al mondo. Oggi però la Cina ha già guadagnato un terreno decisivo in tecnologie avanzate come i laser, la biochimica, i nuovi materiali per i semiconduttori, l´aerospaziale. Il nostro vantaggio, che davamo per scontato, forse ci sta sfuggendo».
Fuga dei cervelli al contrario ora l´America teme la Cina
Torna in patria Chen, padre del supercomputer Usa
Federico Rampini, La Repubblica, 14 novembre 2004
SAN FRANCISCO - Trent´anni dopo aver varcato il Pacifico in senso inverso, compiuti i sessanta Steve Chen ha deciso di voltare le spalle alla Silicon Valley californiana e stabilirsi a Shenzhen, giovanissima metropoli della Cina meridionale. Il suo non è certo il primo esempio di emigrazione di ritorno, da quando il boom economico ha fatto della Cina la «nuova frontiera» del capitalismo. Ma la scelta dello scienziato sino-americano è un caso speciale che preoccupa gli Stati Uniti più di ogni altro.
Perché Chen è uno dei «padri» dei supercomputer prodotti in pochi esemplari all´anno, cervelloni ad alta potenza usati nella ricerca scientifica più avanzata e spesso per scopi militari.
La partenza di un talento che era stato conteso dalla Cray e dalla Ibm è una perdita strategica per gli Stati Uniti, tanto più perché se ne avvantaggia un rivale come la Cina. Il caso Chen è la punta di un iceberg. Sotto c´è una tendenza di massa. La fuga dei cervelli, che un tempo era a senso unico e cioè sempre verso l´America, improvvisamente sta cambiando segno. Quest´anno per la prima volta il numero di studenti e ricercatori cinesi e indiani nelle università americane è in discesa: grazie al miracolo economico asiatico, per loro rimanere in patria è diventata un´alternativa attraente. Craig Barrett, per anni numero uno della Intel, che è il leader mondiale dei microchip, ammette che «i cinesi sono ormai alla pari con noi nell´ingegneria, nel software, ad ogni livello di management». Adam Segal, esperto della Cina al Council on Foreign Relations di Washington, scrive su Foreign Affairs che «alla velocità con cui la capacità di innovazione attraversa il Pacifico, gli Stati Uniti non possono più dare per scontato che rimarranno l´epicentro della scienza e della tecnologia».
L´allarme sulla partenza di Chen è stato lanciato dal New York Times. Traspare la paura dell´intelligence militare americana per l´uso che la Cina potrebbe fare dei supercomputer nello sviluppo di nuovi armamenti, più competitivi con gli arsenali hi-tech del Pentagono. Ma anche nelle applicazioni civili i supercomputer sono spesso «l´arma segreta», lo strumento che per potenza di calcolo consente all´università e all´industria Usa di bruciare la concorrenza nelle scoperte di fisica, chimica, ingegneria o biogenetica. Dei 500 supercomputer più potenti del mondo, la maggioranza è in America. Ma da quando Chen ha cominciato a lavorare per la Cina (a giugno), con il suo aiuto è stato prodotto a Shanghai un supercomputer che è il decimo del mondo per velocità. La Cina ora ha 14 supercomputer classificati fra i top 500 mondiali, ha già raggiunto la Germania al quarto posto in questo settore, e al ritmo con cui si rafforza è pronta a superare Giappone e Gran Bretagna per collocarsi dietro l´America.
Chen non è né una spia né un traditore al soldo di Pechino. Cinese etnico, è nato però a Taiwan da dove partì trentenne nel 1975 per conseguire un dottorato di ricerca in informatica negli Stati Uniti. Già negli anni '80 balzò al top della sua professione, diventando uno dei massimi progettatori di supercomputer, con una carriera passata fra le migliori università e l´industria privata (Cray research, Supercomputing Systems, Ibm). Non c´è una motivazione politica o nazionalistica dietro la sua partenza, del resto ha lasciato la moglie americana e i figli a vivere sotto il sole della California a San Jose. Niente scelta di campo. Semplicemente, Chen per realizzare i suoi ultimi progetti ha trovato più finanziamenti e opportunità di sviluppo in Cina. Incredibile a dirsi, nel centro mondiale del venture capital che è la Silicon Valley, faceva più fatica a trovare i fondi e gli uomini giusti. Li ha trovati alla società Galactic Computing di Shenzhen, finanziata da venture capital di Hong Kong e sostenuta da un gruppo di università tecnologiche cinesi.
Insieme all´allarme per il caso-Chen, l´America sta scoprendo il fenomeno più vasto. Dopo aver beneficiato per decenni del brain-drain, l´attrazione di cervelli dall´estero, il sistema universitario americano perde colpi. In parte la causa è l´11 settembre e il Patriot Act, il giro di vite sui visti che complica la vita a chiunque voglia emigrare negli Stati Uniti, anche ricercatori, scienziati e imprenditori. In parte è il deficit federale accumulato da Bush che comincia a tradursi in tagli ai finanziamenti per le università pubbliche. Ma c´è una terza causa che riguarda i paesi asiatici. Le loro economie stanno crescendo a una velocità nettamente superiore al resto del mondo (+9% la crescita annua del Pil cinese negli ultimi quattro anni, +8% l´India), lo sviluppo tecnologico è così intenso che per i talenti migliori emigrare in America non è più l´unica opzione. Le statistiche degli atenei sono eloquenti. Nell´autunno di quest´anno le domande presentate da laureati cinesi per iscriversi a corsi post-universitari negli Stati Uniti (master e Ph. D.) sono crollate del 45% rispetto all´anno accademico 2003-2004. Per gli indiani il calo nelle richieste è stato del 28%.
Per il sistema universitario americano - e quindi per la competitività del capitalismo Usa - è un segnale di pericolo. Da decenni l´afflusso di studenti asiatici aveva alimentato gli Stati Uniti di forze fresche, qualificate e competitive, soprattutto nei settori scientifici. Era stata coniata una definizione, ironica ma efficace: «I migliori campus americani sono quei luoghi dove anziani professori ebrei trasferiscono il sapere nella matematica, fisica e biologia a giovani studentesse cinesi». La realtà non è molto lontana da quell´immagine. Sia perché i licei americani non sono all´altezza delle università, sia perché da tempo i figli della borghesia americana preferiscono fare gli avvocati o entrare in una merchant bank, l´America è perennemente a corto di scienziati, ingegneri, chimici e informatici. Finora il gap è stato colmato dall´immigrazione asiatica. Foreign Affairs cita un dato impressionante: oggi in America il 38% degli scienziati e degli ingegneri con un dottorato di ricerca (Ph. D.) sono nati all´estero. Per la maggior parte sono cinesi, indiani, coreani. Già negli anni '90 nella Silicon Valley l´economista Annalee Saxenian aveva censito un terzo di start-up tecnologiche create da neo imprenditori col passaporto asiatico. Se viene meno questa risorsa, le conseguenze saranno profonde.
La Cina da parte sua non fa altro che imitare il modello americano. Pur essendo un paese emergente, fa sforzi eccezionali negli investimenti scientifici: in cinque anni i finanziamenti pubblici che Pechino dedica alla ricerca e sviluppo sono passati dallo 0,6 all´1,5% del Pil, superando il livello di molti paesi europei. Nel settore privato, un aiuto non marginale glielo fornisce la stessa industria Usa. Negli ultimi anni i big dell´industria tecnologica americana delocalizzano in Cina non solo le fabbriche ma anche i centri di ricerca, cioè posti di lavoro per scienziati. Microsoft, Intel, Ibm, Motorola, Bell Labs, sono alcuni grandi nomi del sistema America che ormai hanno in Cina centri studi, laboratori sperimentali, uffici di design e progettazione dove assumono matematici, fisici, ingegneri. Adam Segal del Council on Foreign relations non ha dubbi sulla serietà della minaccia: «La leadership globale degli Stati Uniti dipende in larga parte dalla nostra capacità di sviluppare nuove tecnologie e nuove industrie più velocemente di qualsiasi altro paese al mondo. Oggi però la Cina ha già guadagnato un terreno decisivo in tecnologie avanzate come i laser, la biochimica, i nuovi materiali per i semiconduttori, l´aerospaziale. Il nostro vantaggio, che davamo per scontato, forse ci sta sfuggendo».
martedì 21 agosto 2007
Storia d'amore per la scienza e la ricerca
E' difficile non sentirsi per un attimo il pianista di Baricco che dalla sua nave vive molteplici vite e visita il mondo negli occhi e tra le emozioni di chi racconta la sua storia d'amore per la scienza e la ricerca.
Così tra le righe di Storie di Cervelli erranti, è facile trovarsi a fantasticare di viaggiare per il mondo. Sentirsi accolti in terra straniera per la volontà di scienza, estranei in terra propria per il bisogno di capire il mondo, di tracciare una rotta per la Nuova Atlantide Bacconiana.
Le storie sembrano viaggiare sul filo di un'unica scenografia, stregoni cattivi e pozioni magiche servono a superare quelli che sono gli ostacoli di una concezione di ricerca che non permette di sviluppare le potenzialità di una soluzione in terra di origine, poi la resurezione che è sempre o quasi targata estero.
Risulta piacevole conoscere storie di nostri conterranei, nella lettura sembrano più vicini, e diventa possibile impersonare l'eroe che più rispecchia le nostre aspettative di giovane studente o di adulto padre.
Così, davanti all'enigma, la sensazione "cervelli erranti lontani", "so far" ma vicini nel dna, come un saggio amico a cui poter chiedere ausilio nel bisogno insperato di un incantesimo, che i nostri stregoni locali ancora cercano di risolvere con tante armi ma senza vere pozioni ...costano troppo!!!!!
Emanuela Serra, presidente Associazione Sindrome di Crisponi
Così tra le righe di Storie di Cervelli erranti, è facile trovarsi a fantasticare di viaggiare per il mondo. Sentirsi accolti in terra straniera per la volontà di scienza, estranei in terra propria per il bisogno di capire il mondo, di tracciare una rotta per la Nuova Atlantide Bacconiana.
Le storie sembrano viaggiare sul filo di un'unica scenografia, stregoni cattivi e pozioni magiche servono a superare quelli che sono gli ostacoli di una concezione di ricerca che non permette di sviluppare le potenzialità di una soluzione in terra di origine, poi la resurezione che è sempre o quasi targata estero.
Risulta piacevole conoscere storie di nostri conterranei, nella lettura sembrano più vicini, e diventa possibile impersonare l'eroe che più rispecchia le nostre aspettative di giovane studente o di adulto padre.

Emanuela Serra, presidente Associazione Sindrome di Crisponi
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